Pubblicato il 21/12/2004
Scritto malgrado pensi che il calcio sia una falsa religione ma la passione può anche prescindere da chi ha trasformato un gioco in un business e basta Esulo dai soliti racconti di vita olimpica torinese per raccontarvi di un compleanno. O meglio non esulo affatto perché la storia che sto per raccontarvi è torinesissima. E’ un compleanno torinese che racchiude 35 anni di storia torinese. Sono nati nel 1969, un’epoca di grandi trasformazioni e di idee.
Ci sta tutto, lo scudetto del 76, la città scossa dal terrorismo, la marcia dei quarantamila, la ristrutturazione della Fiat, la finale di Amsterdam, la maledizione dei presidenti da Borsano a Goveani a Cimminelli, la città che cambia e che perde i suoi connotati per acquistarne altri di indefiniti. Compleanno festeggiato due domenica fa, con un successo. Sono cresciuto come tanti torinesi sentendo raccontare le gesta di una squadra meravigliosa, con il Filadelfia e Capitan Valentino Mazzola che si abbassava i calzettoni e suonava la carica. Erano gli anni della guerra, dei bombardamenti e gli anni della primissima ricostruzione. Poi la tragedia perché la storia di questa squadra è ricca di tragedia, pathos, sofferenza. Di umiliazione, ma loro niente, mai scossi, sempre il Torino. Sempre quel ricordo e quel paragone dai vecchi ai giovani, quasi una tribù che si tramanda le gesta eroiche. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Cinque scudetti consecutivi, 1942, 46, 47, 48, 49. La leggenda si fermò il 4 maggio. 35 anni, migliaia di chilometri percorsi in lungo ed in largo per l’Italia e l’Europa (pallidi ricordi), spesso a subire bastoste, sconfitte in serie. Che non smontano perché la passione non si smonta. Una passione che merita rispetto, una tenacia incredibile per la disavventura. Ma non importa. Nell’era del successo per eccellenza loro sono lì, ogni domenica ed ogni mercoledì, a Milano come ad Andria, animati dalla passione, da una passione che meriterebbe miglior sorte. A chiedere una squadra decente che corra e giochi da Toro, perché giocare da Toro non è un luogo comune. Perché Claudio Sala, il poeta, era un talento ma da Toro, la poesia della fascia. Quanti racconti ho sentito sul Toro e sui tifosi, perché è una storia comune, di passione e di sentire.
Agostino che il giorno della morte di Meroni pianse come un bambino perché Meroni era il suo idolo e Meroni era un po’ lo spirito del Toro. Era Meronidipendente, Claudio Sala all’ennesima potenza. Morì due anni dopo in un’incidente stradale, quasi in coincidenza con quella data come se il richiamo fosse stato irrefrenabile. Di Gabriele che non la smette mai di ricordare quel derby del tre a due con tre goalincinqueminuti e sembra fare la telecronaca, a distanza di venti anni è ancora lì in Curva Maratona, ricorda nitidamente ogni istante di quella partita, formazione e marcatori perché per il tifoso del Toro il derby non è la partita ma la Partita. Ed oggi impazzisce a vedersi in serie b, a non allontanare lo spettro, la serie cadetta per una squadra dalle grandi tradizioni è un insulto. Quel derby del treadue con la Maratona impazzita forse come non mai nemmeno per lo scudetto perché quella era una vittoria da Toro. Perché il tifoso del Toro deve essere un po’ fatalista ma meriterebbe la Champions League a vita. E’ nichilista lo spirito, è quasi folle la storia degli ultimi istanti, quei pali ad Amsterdam che potevano forse cambiare il corso degli eventi, un pareggio folle a Torino con Dennis il Supremo a passeggiare per il campo. La sedia di Mondonico. Marcheggiani, Bruno, Policano, Fusi, Benedetti, Cravero, Lentini, Scifo, Bresciani, Vazquez Martin, Casagrande. Se ghe pensu, poi il crack di Borsano che aveva illuso la marea granata di poter ritornare agli antichi fasti. Lentini-Meroni la poesia della fascia ecco il perché di un tradimento mai capito. Perché la gente granata si era fermata a Meroni e lo rivedeva nel Gianluigi, quel folle caracollare, talento indiscusso ed indisciplinato. Era la storia del Comunale, la curva Maratona, trepidante e tremebonda, un’onda d’urto, la marea. Del bancario serio, serissimo che si prende tre giorni di ferie per andare a Nantes malgrado la moglie la consideri una cosa folle e non gradisca troppo. Ora si ritiene stanco e deluso non va allo stadio da sette anni ma non sta affatto meglio, anzi “Chissà quando rivedrò il Toro in coppa uefa?”, appunto il fatalismo, ma è negare la passione che stringe ed obbliga ad eseguire quello che si vorrebbe fare ma non si dovrebbe. Mi capita di passare davanti al luogo dove Meroni fu investito ed avverti il brivido della sofferenza: fino a qualche anno fa non mancavano mai i fiori, un personaggio surreale quasi unico nel panorama pallonaro ieri ed oggi. Dopo Superga, Meroni, in linea di massima la doverosa citazione del vero tifoso. Il vecchio tifoso ti cita a memoria la formazione di Superga, quella del Grandissimo Torino, una squadra che avrebbe continuato a vincere in eterno. Chissà senza quella disgrazia, la storia sarebbe cambiata. Vivere di fatalismo, immagini, istanti, ricordi piccoli. Della professoressa seriosa d’italiano che alla domenica smette i panni della seriosa e va in curva, in curva Maratona, secondo anello, a tifare Toro e al lunedì è quasi afona per il gran urlare e che litigò con me furiosamente perché avevo definito Muller un giocatore da squadra fighetta e non da Toro. Perché il giocatore del Toro deve essere da Toro, come Bruno&Policano, quasi corrida in un derby persino vicino al pareggio in nove. Di Paola, mai più con Cimminelli ma che ogni domenica non resiste alla tentazione. E’ così il tifoso del Toro, sofferente, ma nella sofferenza sportiva si carica, non molla, contesta ma sa che la domenica successiva sarà ancora in Curva Maratona. Gli ultras granata hanno compiuto trentacinque anni, un lungo ponte verso la storia, qualcuno di troppo in serie che a loro non competono. Chissà se il trentaseiesimo lo festeggeranno in serie a……..