Oggetto del nostro studio erano le poco conosciute miniere di grafite in regione Garnier nel comune di Roure e il mulino della Rocchetta (o “d’la Teiro Niero”) di Perosa Argentina, dove la grafite estratta veniva macinata.Le notizie che qui vengono presentate sono basate in gran parte sulla testimonianza diretta di Ettore Merlo di Castel del Bosco, già sindaco del comune di Roure, e di Elia Tron, classe 1928, anch’egli di Castel del Bosco, purtroppo deceduto pochi anni fa, che lavorò nel dopoguerra sia alle miniere sia al mulino.L’occasione è gradita per ringraziare ancora una volta il maestro Merlo, che gentilmente per questo articolo ha voluto fornirmi nuovamente ulteriori informazioni sull’argomento, e per ricordare, con un filo di commozione, il sig. Tron che con entusiasmo ci fece conoscere il sito delle miniere e i locali del mulino, luoghi che avevano per noi il fascino della scoperta.
Le miniere di Garnier
Le miniere di Garnier furono scoperte da Giovanni Battista Tron, nato a Garnier in borgata Plavan: costui era analfabeta ma sicuramente dotato di ingegno, fu un “copiatore” come tanti altri, nel senso che vedendo altri scavare e vendere questo materiale si mise anch’egli a cercare la grafite e il talco e a differenza di molti li trovò e seppe fare fortunatestimonianza diretta del sig. Elia Tron.
Alla fine dell’Ottocento, insieme ai suoi fratelli Cirillo e Giuseppe, Giovanni Battista Tron fondò una compagnia e fece costruire dei mulini, uno dei quali è quello in località Rocchetta. Successivamente le miniere passarono agli eredi dei fratelli e poi, nel 1920, furono assorbite dalla Società Talco e Grafite Val Chisone ad esclusione di quelle di Garnier che furono cedute alla ditta A. Cesana di Pero (Mi). Questa ditta, tutt’ora esistente, non detiene più le concessioni sulle miniere da anni abbandonate, ma è ancora proprietaria del mulino della Rocchetta, del magazzino per la cernita, ora diroccato, e dei terreni in cui sono ubicate le miniere.Le miniere di grafite si trovano in località Garnier, nel comune di Roure, ad una quota compresa fra 860 e 970 metri circa sul livello del mare.
Il lungo inverno delle Alpi e le nevi non procuravano nessuna interruzione ai lavori in miniera che duravano tutto l’anno.Le gallerie scavate complessivamente furono quattro ma solo tre produttive: la quarta, chiamata “galleria di ricerca”, fu realizzata negli anni 1947-48, a quota più bassa rispetto alle altre gallerie (863 m. s.l.m.) proprio per verificare se la grafite poteva giacere a quote inferiori. È profonda una quarantina di metri, si sviluppa in verticale e non in orizzontale come le altre miniere: è una galleria a pozzo.
Tutte le gallerie avevano un loro nome di battesimo: la suddetta si chiamava “Giorgio” mentre le altre erano la “Superiore” (a quota 970 m.), la “Eugenia Maria” (a quota 949 m.) e la “Mirella” (a quota 933 m.). Le dimensioni delle gallerie erano 180 cm. circa di altezza (poco più della statura media di una persona) e 160-200 cm. di larghezza.
Sopra l’ingresso della galleria “Superiore”, si trovano due baracche, ora in rovina, coi muri in pietra e il tetto in lose: la prima era il refettorio e conteneva una stufa a legna, nel secondo fabbricato c’era la forgia per rimettere a nuovo gli attrezzi usurati dal lavoro della miniera.
Sistemi di estrazione e di trasporto della grafite
Diversi erano i sistemi di avanzamento cioè i modi in cui si procedeva a scavare le gallerie in rapporto al tipo di terreno o di roccia che di volta in volta la montagna presentava. Infatti a tratti poco saldi con infiltrazioni d’acqua costituiti da terra, argilla e rognoni (pezzi instabili di pietra tenera che si potevano staccare da un momento all’altro) si alternavano tratti di roccia viva, dura e stabile.Nel primo caso, man mano che si scavava, le gallerie venivano armate e puntellate con robusti sostegni in legno, alla cui costruzione e posa provvedevano direttamente i minatori. La struttura di base della armatura, chiamata quadro, era composta da una base poggiante sul pavimento della galleria, dalle gambe – ossia i due montanti laterali – sulle quali si incastrava il cappello, la trave di sostegno superiore posta orizzontalmente.Fra i quadri e il terreno correvano trasversalmente delle armature anch’esse in legno, dette marcho: queste venivano spinte in avanti orizzontalmente, per circa un metro e mezzo, a colpi di mazza e con l’ausilio di un cuneo che “fermava il sopra” e aprivano il posto per un nuovo quadro (marcho-avanti).C. Ferrero, La storia delle miniere, Perosa Argentina, Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca, 1988, p. 28.
Se l’avanzamento era tutto nella roccia dura non occorrevano armature ma si ricorreva alle esplosioni: con mazza e scalpello si praticavano dei fori nella roccia, quindi si infilavano le cartucce di polvere nera (solo in un secondo tempo si utilizzò la dinamite o gomma a). Se ne ponevano sei lungo tutta la parete di fondo della galleria. L’esplosione di tutte le cartucce faceva avanzare di circa due metri. L’operazione serviva per far esplodere la pietra e il materiale inutilizzabile e per avvicinarsi al giacimento.La grafite non si faceva esplodere o meglio si faceva solo qualche colpetto (due o tre cartucce) per agevolare la fase di estrazione che invece era effettuata con utensili a mano (ferri a mina, pistoletti, mazze e mazzette).
In seguito, solo agli inizi degli anni ’50, quindi molto tardi rispetto alle altre miniere dove l’utilizzo cominciò a partire fin dal 1925, furono introdotti i martelli pneumatici ad aria compressa, ma soltanto in una galleria, la “Eugenia Maria”, ubicata vicino all’arrivo a valle della prima teleferica. Nelle sue vicinanze, all’esterno, venne realizzata una baracca in pietra per contenere i compressori, costituiti da motori diesel.Man mano che ci si addentrava si posavano le traversine in legno e i binari in ferro adattandoli allo scartamento del vagone (decauville). Raggiunto il giacimento si facevano gli sbancamenti e tante ramificazioni a partire dalla galleria principale: la fase di spogliamento procedeva fin quando il filone di grafite era esaurito.
In ogni cunicolo potevano lavorare due minatori che picconavano ed uno che spalava il materiale nel vagone e poi spingeva questo all’uscita della galleria.Si è accennato nelle righe precedenti alla teleferica, mezzo di trasporto con il quale il materiale estratto veniva condotto dall’uscita della galleria al fondovalle nel “magazzino cernita”. Il sistema di trasporto alle miniere di Garnier era basato su due funicolari funzionanti tecnicamente nella medesima maniera: la prima più a monte partiva dalla galleria ubicata sotto il locale refettorio e giungeva, con un dislivello di circa venti metri, ad un pianoro ricavato fra le rocce nelle cui vicinanze si trovava l’ingresso della seconda galleria e il locale per i compressori. La funicolare era costituita da un grosso cavo d’acciaio teso con due grosse pulegge, una in cima ed una alla base, poste orizzontalmente su una intelaiatura in legno, che permettevano lo scorrimento del cordone stesso. Al cordone erano agganciati due soli vagoncini che sfruttavano il principio del “va e vieni”: quello che scendeva, pieno di grafite grezza, per gravità riportava a monte quello vuoto per essere ricaricato.Sopra le pulegge c’erano dei volani sui quali si agiva per frenare e graduare la velocità di discesa del vagoncino caricato. Da questo pianoro la grafite scendeva poi per gravità lungo una condotta in legno, di 80 cm circa di larghezza e lunga 25 metri, posta in forte pendenza, fino a giungere alla partenza della seconda teleferica. Alla partenza della teleferica vi era una tramoggia per parte per poter caricare il vagoncino: aprendo una porticina il materiale vi cadeva dentro direttamente. La seconda teleferica era uguale alla prima e scendeva con un dislivello di circa 100 metri al “magazzino cernita”.
Il magazzino per la cernita
Era ubicato lungo la Strada Statale 23 del Sestriere, al km 59,3, sotto l’abitato di Castel del Bosco nel comune di Roure, in località La Caso.Due uomini erano preposti alla mansione di svuotare a terra e far ripartire il vagoncino, che giungeva dalle miniere con la teleferica. I medesimi, poi, con la pala, ponevano il minerale sopra un lungo bancone e sei-sette donne eseguivano la cernita fra materiale idoneo e materiale estraneo.
Il trasporto del materiale selezionato, da questo magazzino al mulino, è sempre avvenuto con carri trainati da animali (tumbarel).
Anche negli ultimi anni prima della chiusura, camion non ce ne sono stati: ricordo ancora il nome dell’ultimo trasportatore, il sig. Marchisio di Meano: veniva a caricare al magazzino col suo mulo e il tumbarel, due-tre volte alla settimana. Questo ci fa capire quanto non fosse molto il materiale estratto da quelle miniere. Il trasporto dal mulino in poi dei sacchi di grafite macinata, quello sì, fu effettuato ultimamente con gli autocarri che si avevano allora.Testimonianza diretta di Ettore Merlo.
Il magazzino dopo la cessazione dell’attività fu utilizzato, per circa una decina di anni, come locale deposito da contadini del posto quindi agli inizi degli anni ’70 fu distrutto da un incendio: ora non restano che poche rovine di muri e scarni pilastri seminascosti in estate dalla vegetazione.
Lou Moulin d’la Teiro NieroLa val Chisone era ricca di minerali e di mulini. Quello di cui parliamo era l’unico mulino in valle, a monte di Perosa Argentina, che macinasse grafite, perché le uniche miniere di questo minerale erano quelle di Garnier; ce n’erano altri per il talco nel comune di Roure nelle frazioni di Balma, Chargeoir, Castel del Bosco. Il nostro in questione è però anche il solo rimasto in piedi che a quarant’anni dalla cessazione dell’attività conservi ancora al suo interno, abbastanza in buono stato, tutti i macchinari.Il fabbricato si può dividere in tre reparti, ciascuno sviluppato su due piani: reparto stivaggio della grafite grezza; reparto macinazione, raffinazione ed insaccamento della grafite; magazzino dei sacchi imballati di grafite lavorata.
Il carro proveniente dal magazzino cernita ribaltava il proprio carico di grafite grezza (ciottoli della dimensione di un pugno chiuso) nel primo locale al piano della strada entro una larga fossa non molto profonda.
Un manovale riempiva con la pala i mestoli del nastro trasportatore verticale che, scorrendo entro una condotta in legno, conducevano al piano superiore la grafite grezza. Quando i mestoli erano nella fase discendente la grafite cadeva per gravità sul pavimento in legno.
Raggiunta una certa quantità di materiale trasportato al piano superiore, lo stesso manovale saliva al piano superiore usando una scala a chiocciola in ghisa e spalava il minerale nelle due tramogge. Esso scendeva, tramite una canalizzazione parallelepipeda in legno, dentro i due arreschi, grandi involucri in metallo di forma cilindrica, contenenti ancora oggi i frantoi per la macinazione.
I frantoi, uno per arreschio, sono costituiti ciascuno da due macine in “pietra di Perosa”, dal diametro esterno di 110 cm e dallo spessore di 40 cm circa, disposte verticalmente e collegate fra loro da un asse orizzontale. Ad un altro asse orizzontale erano collegate due spatole (piem.: ras-ciet) in ferro: i due assi orizzontali erano condotti da un albero verticale solidale con i medesimi e azionato mediante “lanterna e rodetto d’angolo”.Le mole giravano in cerchio sul fondo del frantoio, detto truogolo (o gralo), cioè su una mola centrale fissa con i bordi rialzati, frantumando i ciottoli di grafite e riducendoli a granulometria fine.
La grafite più grezza e pesante che era sul fondo usciva dall’arreschio attraverso una griglia e per gravità cadeva in un grosso cassone in legno. Dall’interno di questo cassone partiva un secondo montacarichi, a nastro e mestoli, che scorreva verticalmente all’interno di una tubatura in legno per evitare dispersione di materiale nell’aria. Giunti in cima, i mestoli svuotavano il loro contenuto all’interno di un altro canale in legno in forte pendenza che conduceva ad un voluminoso contenitore metallico a forma di cilindro sopra un tronco di cono rovesciato.L’esatto funzionamento di questi macchinari e di altri collocati al piano superiore non ci è perfettamente noto. L’unica certezza, secondo la testimonianza del sig. Elia Tron, è che essi servissero a macinare, raffinare e selezionare ulteriormente la grafite secondo la classificazione 0, 00, 000 dopo aver subito la fase di frantumazione nei frantoi.I suddetti macchinari a forma di imbuto che il signor Tron chiamava vagliatori, in numero di due, uno di dimensioni più ridotte dell’altro, sono ubicati al piano superiore in corrispondenza delle due piste: presentano al loro interno una coclea Apparecchio per traforare o sollevare acqua o materiale di piccola pezzatura composto da un cilindro in cui ruota una superficie elicoidale. Viene anche usato per mescolare e – come in questo caso – frantumare.di forma conica dotata di fitte alette che ruotando sbriciolava la grafite allo stato di polvere, eseguendo così la fase chiamata finitura.
Internamente, nella parte inferiore ad imbuto del vagliatore, ci sono due bocchettoni ai quali sono collegati due tubi in legno: il tubo inclinato a 45° collega il vagliatore con l’interno dell’arreschio e riconduceva al frantoio i pezzi ancora troppo grossi e necessitanti un ulteriore sbriciolamento eseguibile solo dal frantoio.Dal bocchettone disposto verticalmente si diparte invece una tubatura che asportava dalla macchina le particelle che avevano raggiunto le dimensioni volute e le convogliava alla macchina insaccatrice, di cui si dirà più avanti.
Di fianco ai vagliatori è posizionato un macchinario che il sig. Elìa ci descrisse come “ventola per il trasporto della grafite nei buratti” ed è racchiusa in un involucro di metallo non apribile – per cui non fu possibile osservare come è fatta in realtà: si ritiene però che la grafite, in sospensione all’interno della pista, venisse aspirata dalla ventola e sospinta nei due buratti (burat), cassoni parallelepipedi, stretti ed alti, in legno, collegati in serie.La parte più pesante di grafite in sospensione cadeva sul fondo del primo buratto quella più leggera continuava il viaggio fino al secondo buratto attraverso una condotta in legno. Il fondo dei buratti è a forma di tronco di piramide e dotato di una apertura che consentiva alla grafite di scorrere all’interno di una condotta sempre di legno verso la insaccatrice.La grafite che usciva dal vagliatore era di tipo 0, di qualità più scadente, in quanto conteneva anche altro minerale, e a granulometria non molto fine; quella che proveniva dal primo buratto era di tipo 00, di qualità e granulometria intermedia; quella del secondo di tipo 000, di miglior qualità, extrafine e pura.
L’insaccatrice è costituita da un telaio che regge una sorta di grosso imbuto: ad una estremità era agganciato un sacco di iuta. La grafite indirizzata dall’imbuto cadeva dall’alto all’interno di un canale e contemporaneamente un pistone, azionato meccanicamente da una puleggia, comprimeva la grafite all’interno del sacco facendole occupare il minor spazio possibile.Attorno al sacco, unita al telaio, c’era una cinghia fissa. Man mano che il sacco si riempiva di grafite scendeva assieme al suo supporto ad imbuto e quando il margine superiore del sacco era in corrispondenza di tale cinghia significava che era pieno e che conteneva un quintale di grafite. Automaticamente un contrappeso spingeva la cinghia sulla puleggia in folle e l’intero meccanismo di insaccatura si interrompeva cioè si fermava il pistone e anche la grafite non scendeva più: “Si producevano in media sedici quintali al giorno di grafite macinata, cioè due quintali all’ora per otto ore lavorative al giorno”.Testimonianza diretta di Elia Tron.
Dopo essere stati insaccati ed etichettati, i sacchi venivano immagazzinati nel locale adiacente e poi caricati sui carri mediante argano a mano.
Lo stesso argano serviva inoltre per sollevare su un soppalco parte dei sacchi imballati che non trovavano spazio al piano inferiore.
Per questi sacchi si utilizzava poi un curioso metodo di carico: erano condotti sul carro per gravità tramite uno scivolo in legno, chiamato coulice, sorretto ad una estremità da un apposito gancio.
Al piano inferiore, verso uno dei lati minori del fabbricato, era ubicata l’officina, locale dove si effettuavano i lavori di manutenzione delle componenti dei macchinari operanti nel mulino.In questo locale venivano inoltre riparate le cinghie in cuoio della trasmissione: per avere uno spessore meno diseguale si assottigliavano le due estremità spezzate, quindi venivano unite con corde anch’esse di cuoio tramite un grosso ago.Fra le operazioni di manutenzione ordinaria vi era la martellinatura periodica della macina orizzontale per ravvivarne i taglienti, operazione detta martlè la mola.
Il mulino e l’energia Massima importanza aveva nel passato l’uso delle acque, non soltanto per l’irrigazione ma ancor più per mettere in movimento tutti quei congegni meccanici indispensabili alla vita degli uomini, come i mulini e i frantoi.Le opere di presa rappresentavano un problema di ingegneria idraulica certamente non semplice. Quelle del nostro mulino sono ubicate 250 metri a monte nel sito in cui il rio Agrevo confluisce nel torrente Chisone.
Per azionare l’impianto, attraverso il corso del torrente fu eretto uno sbarramento, la ficco con una diga di tracimazione in modo che si creasse a monte di quest’ultima una zona in cui l’acqua, sufficientemente calma, mantenesse un livello pressoché costante. Da qui si dipartiva un canale che prelevava la quantità di acqua destinata alla ruota. La portata del torrente che non entrava nel canale di derivazione superava il colmo dello sbarramento e fluiva a valle. Vi era poi ancora un altro breve canale, lo scaricatore, che collegava il primo tratto del canale di derivazione con il torrente, 90 metri circa a valle dello sbarramento. Le opere di presa comprendevano ancora tutto un sistema di paratoie, sollevabili manualmente mediante vite, per regolare l’afflusso delle acque.Lo scaricatore permetteva, quando si riduceva con le paratoie la portata del canale, di far ritornare al fiume la portata in eccesso.
Il canale che portava l’acqua al mulino è scavato nella terra e delimitato da muri di rialzo per sostegno e livellamento e scorre fino al fabbricato a fianco della strada statale 23, quindi per i campi fino al primo abitato di Perosa Argentina in località Brancato. Da qui in avanti il canale non esiste più mentre in precedenza fu utilizzato dal cotonificio Abegg per alimentare una sua centrale idroelettrica. Attualmente l’intero canale non sembra più essere utilizzato, neppure per l’irrigazione dei prati.Nelle immediate vicinanze del mulino, dal canale principale si diparte un canale secondario in muratura che gira attorno al fabbricato e alimenta una vasca di contenimento della capienza di 40 metri cubi d’acqua.Questa vasca era situata prima della grossa ruota idraulica e manteneva il giusto livello d’acqua. Anche lì c’erano due paratoie, una per regolare e nel caso interrompere l’alimentazione alla ruota, l’altra per attivare il canale di scarico per l’acqua in eccedenza.Tramite un canaletto inclinato, la chënâl, formato generalmente da un cassone di spesse tavole in legno, l’acqua precipitava sulla ruota idraulica, in ferro, ad asse orizzontale, lou roudoun, dalle dimensioni di quattro metri di diametro per 1,20 metri di larghezza. La ruota girava per effetto del peso dell’acqua che riempiva le cassette, realizzate in ferro a v o u e attaccate tramite bulloni, costituenti la periferia della ruota.L’albero centrale di sostegno della ruota idraulica, attraverso una apertura praticata nel muro, penetrava in un locale al piano inferiore e per mezzo di una grossa puleggia azionava i macchinari del mulino.L’energia veniva trasmessa mediante cinghie messe in moto da pulegge fissate su quattro complessivi alberi di trasmissione. Tutti gli alberi di trasmissione giravano sempre: per fermarli occorreva bloccare il roudoun.
Durante la II guerra mondiale vennero realizzati il bacino idrico di Meano, la centrale idroelettrica del cotonificio Abegg nel comune di Perosa e il relativo canale di alimentazione della centrale scavato dentro la montagna.
Come conseguenza di ciò si è avuta carenza d’acqua nel torrente Chisone nel tratto a valle del bacino di Meano, ma in cambio il Cotonificio fornì l’energia elettrica al mulino. Il roudoun, poiché non serviva più e una ditta desiderava averlo, fu venduto non molto tempo dopo.La portata del canale era costante tutto l’anno e sufficiente a garantire contemporaneamente nei giorni di luglio ed agosto l’irrigazione dei campi ed il funzionamento del mulino.Il mulino funzionava tutto l’anno; si interrompeva magari qualche giorno nel periodo estivo delle ferie per le riparazioni e per le opere di ordinaria manutenzione.I turni erano di otto ore, il primo dalle 6 alle 14, il secondo dalle 14 alle 22. Alla sera si fermava tutto togliendo l’acqua al roudoun tramite la paratoia: l’acqua scorreva solamente più nel canale di fronte l’ingresso.Al mulino lavoravano complessivamente sei persone: un addetto alla Officina, un caposquadra a cavallo dei due turni e due altri operai per turno; il primo spalava la grafite nei mestoli che la portavano al piano superiore e poi riempiva le tramogge; il secondo era sotto e controllava le piste, insaccava, pesava i sacchi e gli applicava una etichetta.
Al termine del turno di lavoro gli operai erano irriconoscibili. La grafite penetrava nei fori in profondità e anche se si lavavano, quando sudavano, la grafite usciva nuovamente. Inoltre allora era meno facile lavarsi di oggi.
Testimonianza diretta di Elia Tron.
Dal dopoguerra fino alla chiusura il direttore responsabile dell’intero ciclo di produzione (estrazione e lavorazione della grafite) è stato il fratello del M° Merlo, il geom. Ilario Merlo (1915- 1964).L’attività estrattiva e quella di macinazione è cessata completamente negli anni 1962-63 perché non più competitiva:
Lo sfruttamento della miniera, della teleferica e del mulino era condotto in maniera artigianale, mentre altrove era notevolmente maggiore. La limitata produzione non permetteva il continuo adeguamento ed ammodernamento degli impianti e di conseguenza era impossibile ridurre i costi di estrazione e di lavorazione, quindi immettere sul mercato il prodotto finito ad un prezzo più concorrenziale. Il signor Cesana diceva che la grafite che proveniva dall’estero, soprattutto dall’Austria, gli veniva a costare sì e no la metà di quella proveniente da questo mulino.Testimonianza diretta di Ettore Merlo.
Bibliografia
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A. Pittavino, Storia di Pinerolo e del Pinerolese, Milano, Bramante, 1966, vol. II;
G. Baret, Gli antichi mulini e frantoi per noci della Val Germanasca, Perosa Argentina, Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca, 1987;
Centro arti e tradizione popolari del pinerolese, Acqua mulini balere, Pinerolo, Alzani (collana “Tracce”, vol. X), s.d. (1984);
Centro arti e tradizione popolari del pinerolese, Antichi mestieri, testimonianze sulla tradizione dei mestieri artigianali. Maniscalco, Battitore di rame, Fucinatore, Carradore, Pinerolo, Alzani (collana “Tracce”, vol. XI), s.d. (1984).
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