Tra fine Ottocento e primi Novecento si sviluppò lo sfruttamento del filone di calcopirite localizzato sullo spartiacque tra la Val Germanasca e la Val Troncea. Oltre 300 operai erano impegnati tutto l’anno, inverno compreso, a 2700 metri di altezza, nelle gallerie sopra il colle del Beth.
Il 19 aprile del 1904 una terribile valanga travolse e uccise 81 minatori . Dopo un inverno freddo e nevoso, il mese di aprile fu caratterizzato da forti precipitazioni e notevoli accumuli di neve bagnata e pesante.
Ormai da giorni un centinaio di minatori erano isolati a 2623 m di quota nelle baracche delle miniere. La paura dell’incombere della massa nevosa, l’esaurimento delle scorte di viveri e la preoccupazione di non riuscire a tornare a valle in occasione delle festività pasquali, spinsero i minatori ad affrontare la pericolosa discesa nella neve. Consapevoli del grande rischio che stavano correndo, decisero di partire, in fila indiana, in squadre distanziate, nella speranza che in caso di valanga non tutti fossero travolti, in silenzio. Ma tutte le precauzioni non furono sufficienti…
“La tragedia accadde alle 12.30. Un colpo di tuono, fortissimo, sconquassò la vallata e prima ancora che i minatori si fossero riavuti e pensato alla difesa, furono trasportati nel vallone da una massa enorme di neve che sembrava una montagna, pare che l’enorme valanga si fosse staccata dal versante settentrionale del Ghinivert… La ricerca ed il recupero delle vittime fu estenuante: si protrasse fino alla fine di giugno. La conta finale dei corpi recuperati fu di 74 persone. Allora fu chiusa la fossa comune, al cimitero di Laval all’inizio della val Troncea” (Testo tratto da: Vite nere. Storia delle miniere del Beth e della grande valanga del 1904”. Pinerolo, ed. L’Altro Modo 1997).
Il guardiparco Bruno Usseglio, nelle sue ricerche storiche, ha trovato un interessante articolo pubblicato sulla rivista La Lanterna pinerolese Sabato 3 settembre del 1904. Questo il suo racconto:
La valanga del Beth, quattro mesi dopo
Sabato 3 settembre del 1904 il giornale pinerolese La Lanterna pinerolese pubblica un toccante resoconto di una escursione sui luoghi della valanga che il 19 aprile dello stesso anno aveva travolto 81 minatori. Si tratta di un racconto che contiene le descrizioni di ciò che l’autore della corrispondenza ha visto in prima persona salendo a piedi qualche giorno prima dell’uscita dell’articolo, narrazione che risulta arricchita anche da alcune sue personali considerazioni. Contravvenendo alle regole che normalmente contraddistinguono la pubblicazione di una news sulla rete, che dovrebbe essere corta e concisa, considerato l’interesse dell’argomento e il valore della testimonianza, abbiamo convenuto di riportarla quasi integralmente.
Ecco dunque Al Beth, considerazioni e divagazioni di un pellegrino che al termine si firma L ed O: “Allo spuntar del dì lasciamo il piccolo paese di Laval, e per la strada, che fiancheggia il letto del Chisone saliamo al villaggio della Troncea. Un velo di nubi avvolge le cime dei monti e preannuncia prossima la pioggia. Non accettiamo il consiglio di chi vorrebbe rimandata la gita e procediamo egualmente su per l’erta salita. Notiamo quasi subito, tracce delle valanghe del 19 aprile u.s. È neve ricoperta da terra e da pietre, son grossi alberi sradicati, son massi enormi di roccia che le valanghe trascinaron con sé sin là in fondo alla valle. Lasciamo alla nostra destra la Fonderia, ove è situata la stazione d’arrivo della funicolare e risiedeva la Direzione dei lavori delle miniere. Quella casa là ai piedi della Rognosa, circondata da folta pineta ricorda quelle case romite descritte in quei libri di fiabe, che si vivamente impressionarono le nostre menti giovanili. Pochi passi oltre e François, così si chiama un buon figlio dell’Alpe, che ci accompagna, ci addita una palizzata che sbarra il letto al Chiusone. È questa stata costrutta la primavera scorsa quando per lo sciogliersi della neve della valanga si temeva che qualche cadavere potesse venir trascinato nelle acque del torrente. Là, innanzi a noi, la valle forma a sinistra una insenatura. Là, fra poche ore, si terrà la commemorazione solenne delle povere vittime del disastro immane. Pieghiamo a sinistra e giungiamo a Troncea, ultimo paesello della Valle. Poiché desideriamo essere qua di ritorno per la commemorazione, che si terrà alle 8, prendiamo la via più breve, che sale alla stazione d’Angolo. È un sentieretto, che si inerpica quasi in linea retta su per la montagna. Attraversiamo praticelli ricoperti di un mesto tappeto d’erba giallognola e dopo pochi minuti di cammino lasciamo dietro a noi gli ultimi abeti. I monti, che si fanno ognor più poveri di verzura spirano melanconia, la natura appare quasi sterile e morta. Dietro a noi, tagliati a picco, vedovi d’erbe stanno i vertici della Rognosa e della Banchette. Sulla punta di questo monte per iniziativa del nostro Vescovo deve sorgere quella chiesuola, che dovrà impedire che dal Beth, che si erge là innanzi maestoso, si stacchino altre valanghe e facciano altre vittime. François ci narra che Monsignore in una visita fatta di recente alle popolazioni di Val Pragelato le ha invitate a portare ai parroci patate e grano. Dalla vendita che se ne farà spera di ritrarre il denaro occorrente per l’erigenda chiesetta. Privare i vivi per esaltare i morti non pare troppo opportuno per i nostri alpigiani, dalla scarpa grossa, ma dal cervello sottile. La narrazione di François non ha quei commenti, che avrebbe certamente avuto in altro luogo ed in altro giorno. Nessuno di noi ha volontà di parlare. Altissimo silenzio è ovunque. I pensieri trasvolano sull’ali della fantasia, mestizia ineffabile avvolge i nostri cuori, alle menti nostre si affacciano gli episodi più tremendamente pietosi di quel triste dramma. Il soffio della fredda brezza, che si stacca dalle rupi che ci sovrastano, da queste rupi donde partì la terribile valanga, pare porti all’orecchio nostro il pietoso lamento di quei poveri giovani, che rinchiusi tra possenti pareti di ghiaccio, miseramente perirono dopo lotta disperata, dopo di aver invano per l’ennesima volta rivolto lo sguardo attorno in cerca d’una via di scampo, in cerca d’un aiuto. Poco più d’un quarto d’ora è trascorso da quando abbiamo lasciato Troncea e già innanzi a noi compare una casa costrutta parte in muratura e parte in legno. È la stazione detta d’angolo ove ricevettero le prime cure i pochi minatori che vennero salvati. Qua e là per la valle si vedono carrelli della funicolare. Non v’è traccia della valanga. Saliamo circa una mezz’ora e giungiamo alla stazione. Dalla valanga non fu danneggiata. Ha due travi di sostegno del tetto rotte dal colpo violento ricevuto dalle funi della funicolare (che andavano da qua al Ghinivert) spezzatasi per la caduta dei sostegni di legno. Pieghiamo a sinistra e dopo una quindicina di minuti, giungiamo a circa cinquanta metri sotto la stazione di monte. È qui ove si rinvenne la maggior parte delle povere vittime. Vivissimamente commossi, pieghiamo ancora leggermente a sinistra ed eccoci ad un piccolo avvallamento dove si innalza una modesta croce, a cui fan corona numerosi i fiori delle alpi. È qua che venne ritrovata la salma del geometra Maurizio Basile. Su questa croce che giovin fanciulla pose a ricordo dell’uomo che l’amava d’intenso affetto e che anelava al giorno in cui l’avrebbe potuta rendere sua sposa, pur noi deponiamo un fiore. Mestizia ineffabile avvolge in quell’istante i nostri cuori e il nostro pensiero vola al cimitero di San Secondo. Senza profferir parola percorriamo il breve tratto che ci separa dalla stazione di monte. Dalla valanga è stata quasi completamente abbattuta. Alla violenza dell’urto solo resistette la galleria in legno che univa la stazione alla miniera e che tutti gli anni le valanghe distruggevano. La stazione non la si vede che sin quando si è giunti a pochi metri di distanza. Sorge, o meglio sorgeva, ad un centinaio di metri dal culmine della montagna, in un piccolo ripiano. A destra di chi la guardi, di fronte, si innalza per ben trecento metri erta e minacciosa la punta del Beth. È di lassù che partì la terribile valanga. Pei fianchi scoscesi sonvi dei pali destinati a suddividere le valanghe. Tutto attorno al baraccamento si vedono indumenta dei poveri minatori, carte, ferri di lavoro, coperte, botti, ecc. ecc. Il sole che tratto tratto fa capolino fra le nubi ravviva la mestizia di questa scena, che è delle più tristi che si possan concepire. Mentre giriamo qua e là vediamo salire su per la valle drappelli di visitatori pensosi. Seppimo poi che erano lavoratori venuti da lontano, mossi dal desiderio nobile e pio di assistere alla loro commemorazione. François, mal celando l’interna commozione ci narra episodi strazianti, ci porta a vedere i punti in cui vennero ritrovati i pochi scampati alla morte. Da un’apertura posta fra travi spezzate del tetto vediamo il luogo ove miracolosamente non rimasero schiacciati quei venticinque operai, che dopo lotta sovraumana riuscirono a porsi in salvo e che primi portarono alla Fonderia l’annunzio dell’orribile disastro. Andiamo a visitare il luogo ove era il dormitorio dei poveri operai. Per recarvici passiamo accanto ad una fossa in cui del pane, delle cipolle e del lardo in stato di decomposizione esalano un odore nauseabondo, appesi ai muri sonvi ancora berretti, giubbe, calzoni, ecc., sparse, per terra, alla rinfusa v’è un’infinità di oggetti. Tutti parlano alla mente nostra, tutti pare voglian ricordare un episodio pietoso. Mentre commossi osserviamo questi luoghi d’onde spira un’infinita tristezza, arrivano altre comitive. Persone che ben conoscono come si svolse la cupa tragedia, con parola semplice ma improntata ad accento veritiero illustrano luoghi e uomini, danno nuovi interessanti particolari. Apprendiamo che se non fosse avvenuta la valanga a quest’ora lavorerebbero quassù quattrocento operai; che a quest’ora la galleria di questa miniera sarebbe unita a quella del monte del Ghinivert e sarebbe così stato evitato per sempre il pericolo, poiché in ogni evenienza, gli operai si sarebbero potuti ritirare nella galleria per cui anche se la valanga cadendo ne avesse otturata l’imboccatura, non vi era più pericolo d’asfissia avendo la galleria altra uscita in un punto riparato dalle valanghe. La narrazione del disastro, delle opere di salvataggio suona alquanto diversamente da quelle di quasi tutti i giornali: meno eroi e più pochi atti di coraggio. È il triste episodio che noi tutti commove, non ha per il figlio della montagna scatti d’entusiasmi. Il racconto procede calmo e semplice. Le azioni coraggiose, il disinteresse sublime che attrasse colassù autorità, sacerdoti, pastori, soldati, uomini d’ogni età, non è per essi che un atto semplice d’umanità. Gli è che per quei montanari i pericoli della montagna non hanno terrori né incutono spaventi. Il lungo verno con le sue nevi, le balze della montagna cogli orridi precipizi non hanno per essi meraviglie e bellezze. Noi vorremmo poter ripetere con eguale semplicità e chiarezza quanto apprendemmo, ma ne sconsiglia il timore che le impressioni individuali offuschino forse il racconto ufficiale oramai incontestato. Diremo una sol cosa, cioè che ognuno s’augura che le famiglie delle vittime traggano a giudizio le Società d’Assicurazione degli infortuni per la liquidazione dei danni, perché così dal dibattimento che ne seguirà, il pubblico verrà a conoscere molte cose che è forse bene si sappiano perché così si potranno ritrarre utili ammaestramenti per l’avvenire, si potranno accertare le responsabilità se pure responsabilità vi possono essere non essendosi ritenuta necessaria una accurata inchiesta giudiziaria. l’ora della commemorazione ormai è vicina e bisogna discendere. Giungiamo pochi minuti prima ch’essa abbia inizio. l’animo nostro s’allieta al vedere sì lunghe file di popolo, s’allieta al vedere che tante centinaia di persone hanno compreso che era sacro dovere, a qualsiasi fede politica s’appartenesse, di partecipare alla cerimonia inaugurale di questa lapide, che non ricorda i nomi di Carneadi più o meno illustri, ma ricorda bensì tante virili esistenze spezzatesi nel fiore degli anni, un grave lutto per tante famiglie di lavoratori. Uno squillo di tromba ci trae dalla meditazione. Silenzio! La mesta funzione ecco s’inizia“.
Per saperne di più: La Lanterna Pinerolese, sabato 3 settembre 1904, anno XXIII.
Approfondimenti sulla tragedia del Beth si possono trovare sui due libri di Gianvittorio Avondo
– Vite nere storia delle miniere del Beth e della grande valanga del 1904 / Gian Vittorio Avondo 1997
– Pragelato il Beth e le sue miniere ad un secolo dalla grande valanga / Gian Vittorio Avondo, Daniele Castellino, Domenico Rosselli