Se la leggenda è pur sempre una memoria di fatti accaduti in un determinato luogo, il colle del Beth, a 2785 metri sul versante orografico destro della Val Troncea, tra la Punta del Beth ed il monte Ghinivert, considerando il numero e la qualità dei racconti che lo vedono scenario, dovette allora offrire grossi stimoli all’immaginario collettivo dell’alta Val Chisone, della Val Troncea e del Vallone di Massello.
La sua fama più recente, o meglio la conoscenza del luogo, si diffuse però non tanto per questa nomea o per la presenza ad altitudini così elevate di miniere di rame o per il suggestivo arcipelago lacustre che qui si incontra (6/7 laghi in condizioni ottimali), quanto piuttosto a seguito di un’immane tragedia avvenuta nell’aprile del 1904 quando due valanghe provocavano la morte di ben 81 minatori, mentre a gruppi stavano scendendo a valle a seguito delle copiose nevicate in quota.
La storia mineraria del colle, che raggiunse il suo apice produttivo nel secolo scorso, per concludersi nel 1914 con la chiusura definitiva delle miniere, potrebbe tuttavia essere cominciata molto tempo prima, con l’individuazione e la raccolta sul posto di minerali cupriferi. Lo suggerirebbero indirettamente nel loro piccolo anche le leggende locali, ad esempio nella scelta dei personaggi e nel tema del tesoro nascosto, metafora facilmente riconducibile alla presenza del prezioso (culturalmente ed economicamente) minerale cuprifero, per certi versi “cugino povero” dell’oro.
La valenza suggestiva e simbolica degli interpreti e del tema in questione si rafforza poi, in questo contesto, dal fatto di essere associata alla presenza di grotte e di miniere: aperture al mondo sotterraneo, una delle dimensioni culturalmente e fisicamente più temute nel passato, innanzi tutto perchè difficile da far rientrare in un ambito esperienziale, e quindi accettabile “solo” attraverso una sentita rielaborazione fantastica.
La leggenda che segue, forse la più significativa e particolarmente ricca ed articolata nella versione comparsa nel 1912, su Pinerolo ed il Pinerolese, a cura del Doctor Murmex, ben evidenzia nel suo contenuto e nel suo messaggio più mascherato, il fascino ed il timore che esercitava questo mondo di confine, questa linea di demarcazione tra il buio e la luce, tra la curiosità di conoscere ed una prudenza imposta.
“Molto tempo fa sedeva davanti all’entrata di una grotta al Beth, un uomo vecchio con la barba bianca, che era solito invitare il viaggiatore che transitava sul colle a proseguire il viaggio, con l’augurio che Dio lo conducesse altrove. Poi rivolgeva lo sguardo verso l’interno di quell’oscuro mondo, come in attesa. In fondovalle la sua figura era molto chiacchierata: c’era chi diceva che egli fosse un guardiano di un ingresso dell’inferno, chi un mago.
Ma egli non era che un fedele servitore, desideroso solo di trovare pace e stanco di aspettare il suo giovane signore. Tutto era cominiciato quando quest’ultimo, il Conte Borgogno dei Trucchietti, signore della Val San Martino (Val Germanasca) e proprietario anche delle miniere di Valloncros (sopra le cascate del Pis) e di Glacieres (quelle del Beth), che nel XIII secolo avrebbero pure destato l’interesse del Vescovo di Embrun, facendo sorgere liti per il loro possesso durate ben 70 anni (1140-1210) ), si era recato in sua compagnia su questo colle per allontanare la tristezza che gli procurava il mancato amore della sua bella Violanta (o Violante).
E mentre ancora una volta egli affidava alle canzoni ed alle poesie composte per lei, tutta la sua tristezza ed il suo dolore, un canto dolcisssimo proveniente da sottoterra si irradiò sul luogo. Lo scudiero, presagendo quasi un pericolo incombente, sollecitò il conte ad andare via, ma questi era ormai troppo preso da questa misteriosa musica; e quando poi da un antro, apertosi improvvisamente nella roccia, apparve una bellissima giovane con la fronte adorna di una ghirlanda di rododendri che lo invitava a seguirlo dentro, egli accettò quell’invito senza alcuna incertezza.
Lo scudiero cercò di trattenerlo, ma inutilmente, e presto una porta si chiuse dietro il suo signore. Passò un anno e sul volto della bella giovane cominciò a formarsi qualche ruga, poi altre, poi altre ancora. Il suo ospite la supplicò più volte di lasciarlo andare fuori a respirare l’aria ed a vedere la luce del sole, arrivando anche a giurare che sarebbe tornato. Ma solo quando pronunciò il nome di Dio, in un’ennesima richiesta di libertà, il conte, mentre la donna scompariva in quell’istante, potè venire fuori dalla grotta dove trovò all’ingresso il suo scudiero.
Inginocchiatosi, cominciò subito a pregare; per troppo tempo non l’aveva più fatto. Per il rimorso di essere vissuto nel peccato, decise quindi di andare a chiedere il perdono a Roma e con il suo fedele servitore si mise in viaggio. Man mano che si avvicinava alla città, si sentiva inoltre sempre più svincolato dalla promessa fatta alla donna del Beth. Ma il prelato che lo accolse e sentì la sua storia, non solo gli negò il perdono, gli sentenziò pure una terribile condanna, cioè che egli avrebbe avuto la remisssione dei peccati solo quando il pastorale piantato sarebbe fiorito.
Il conte, mentre il severo giudice conficcava a terra il suo pastorale, si allontanò con tristezza, affidando alla misericordia divina la sua ultima speranza di essere perdonato. Tre giorni dopo la sentenza, il severo prelato fece uno strano sogno in cui apparve il giudizio di Dio in tutta la sua grandiosità e potenza ma anche in tutta la sua grande misericordia. Sognò pure un Serafino che gli additava il suo pastorale verdeggiante, ripetendogli la stessa condanna che egli aveva inflitto a quel peccatore che veniva da lontano.
Quando si svegliò, egli si rese conto della sua grave mancanza di pietà ed immediatamente inviò messaggeri in ogni parte per trovare quell’uomo pentito che egli aveva umiliato, ma inutilmente. Il conte era già tornato nella grotta del Beth. Vi rimarrà a lungo, ma all’ingresso di quel terribile antro, lo attenderà sempre il suo fedele scudiero, seduto su di una pietra coperta di muschio”